Siamo nel Comune di Negrar, più precisamente in una sua frazione a nord chiamata Prun, in Via Caviazzo, al confine tra l’alta Valpolicella e la bassa Lessinia. La Valpolicella da sempre zona di vini, la Lessinia da sempre zona di latte e pietra. Il luogo in cui ci troviamo è una delle cave di Prun, cave che oggigiorno giacciono in stato di abbandono, precluse al pubblico. Sono strutture ipogee nate dal secolare lavoro di estrazione della pietra delle montagne circostanti, nota anche come pietra di Prun. Fonti storiche riportano già in epoca medioevale l’utilizzo di lastre e bloc- chi di pietra per delimitare i confini dei terreni.
Nel caso della nostra cava si dice che l’estrazione si fermò intorno al 1935, in quel momento si preferì il lavoro nelle cave a cielo aperto, sia per la sicurezza degli uomini, sia per la comodità dei nuovi macchinari per il prelievo del materiale roccioso, specie per la rottura del cappellac- cio, la parte superficiale agli strati di interesse commerciale.
Dalle cave di Prun, grandi quantità di pietra partirono alla volta della città di Verona, costruendo nei secoli i suoi più importanti monumenti, gli edi- fici più rappresentativi e le stesse case della popolazione. La diffusione della pietra raggiunse poi la pianura padana, viaggiando sui suoi grandi fiumi, l’Adige e il Po.
All’interno di questa cava, la più grande per estensione delle cave di Prun, lungo le pareti si leggono con chiarezza settantatré stratificazioni di roccia con uno spessore variabile dai 2,5 cm ai 30 cm. Ciascuno di questi numerosi strati ha un nome d’uso che lo identifica per il suo impiego, ogni stratificazione dispone di un materiale con diverse qual- ità. Nacque così dallo scavo un disegno tessuto nella roccia, complice dell’impatto suggestivo che si riflette su questo spazio fatto di ombra e di luce.
Il progetto prevede di convertire la cava ad un uso sociale attraverso interventi culturali di matrice polivalente, si intende rendere accessibili gli spazi delle navate della cava, permettendone la visita accompagnata da una proposta di momenti interattivi, fatti di iniziative permanenti e temporanee, legate alla promozione del territorio della Valpolicella e dei suoi vini. Non sarà un museo, sarà piuttosto un laboratorio di estrazione di conoscenze sul mondo della vigna e degli uomini che la lavorano da secoli. Una piattaforma coperta per mettere al riparo saperi che hanno fatto conoscere, a livello internazionale, la zona per la qualità della sua produzione vitivinicola.
L’intervento prevede innanzitutto il consolidamento, la messa in sicurezza e la pulizia degli elementi, fornelli, setti e pareti che costituiscono l’area della cava. L’aggiunta di nuovi elementi è limitato e funzionale alla permanenza nella cava per una sua nuova lettura.
Ispirazione progettuale si trova negli spazi immaginari dell’opera di Giovanni Battista Piranesi, le sue Carceri d’invenzione realizzano una visione degli interni in forte risonanza con il nostro caso.
L’idea dell’attraversamento di uno spazio sotterraneo stimola l’intero progetto. La visita e la stessa naturale distanza comunicativa del visitatore sono guidate dagli spazi esistenti. Incredibile, ad esempio, il primo fornello adiacente all’ingresso che raccoglie la sensazione di doversi fermare guardando in su nell’immediatezza di una vertigine sacra, ricordando il Pantheon di Roma con il suo famoso oculo.
Cava come utero che ha dato vita a buona parte del paesaggio architettonico del territorio veronese, dai prati incorniciati della Lessinia, alle tombe, poi gli altari passando per i marciapiedi sporchi di turismo del centro storico della città.
Ritornare in cava è un po’ come ri-mettersi, capire la pietra che fin da piccolo hai calpestato, accettare la tomba che hai chiuso, stare meglio.
Lungo le navate depositeremo “frammenti”, “pezzi” adatti a fermare l’andatura dell’attraversamento. Rendere consapevole il “rientro” guida l’impresa, fermarsi per capire ogni passo fatto, sostare per capire il passo da farsi, affacciarsi come specchiandosi sui propri passi. Per costruire una spazialità emotiva nascosta anche nelle sensazioni di un buon bicchiere di vino.
Ci saranno quindi stanze per stare, passaggi per passare, affacci per guardare. Una stanza del fuoco, una stanza del buio, una stanza del vetro, una stanza del vino e la stanza della messa in scena, una sorta di spazio di rappresentazione.
In ingresso come in uscita svilupperemo plasticamente il tema della soglia con due linguaggi vicini ma lontani. L’entrata monumentale, l’uscita dall’esperienza di visita invece discreta, ambigua. Quasi per non ricordarne la fine, un po’ come succede all’uomo che non riesce a ricordare la cosa più importante successa, la sua nascita.